giovedì 27 gennaio 2011

Cadean le foglie dal tremolio dei pioppi..










27 gennaio 2011
Buongiorno,
qui sotto inserisco il capitolo XII della poesia di Gabriele D'Annunzio "LA NOTTE DI CAPRERA", che mi piace associare alla foto che ho inserito nel sito www.giulianocorti.it galleria "Natura".
Giuliano




...cadean le foglie dal tremolio dei pioppi...



Gabriele D’Annunzio

ELETTRA
Libro Secondo delle
LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI
La notte di Caprera
XII.
Sotto l'immensa gloria chino la fronte,
il Dittatore onniveggente è immoto.
Nel sacco rude la sua mano s'affonda
e inerte sta, immemore dell'opra.
Or è interrotta l'opra del buon colono.
Ei più non vede rilucere pe' solchi
le sue semente, né ribatte le porche
ei con la marra in suo pensiero. Ascolta
il vento e il mare nella notte profonda.
Ascolta il rombo del suo spirito solo.
Non proferì la sua più gran parola
quando a quel re sopraggiunto donò
il regno e solo poi si ritrasse all'ombra
d'un casolare, lungi alla bella scorta,
sol con taluno de' suoi laceri prodi?
Triste è la bocca nella sua barba d'oro,
ché le sovvien del molto amaro sorso.
Era laggiù, presso Teano, incontro
ai foschi monti del Sannio, il donatore;
seduto all'ombra era, su vecchia botte
non più capace di contener la forza
del vin novello. Era l'autunno intorno;
ammutolito sul Volturno il cannone;
piegata e rotta la gente di Borbone
sul Garigliano; scomparso con la scorta
splendida il re sul suo cavallo storno,
andato a mensa. Era l'autunno intorno:
cadean le foglie dal tremolio dei pioppi;
i campi roggi fumigavano sotto
l'aratro antico tratto dai bianchi buoi
campani cui rauco urgeva il bifolco
fasciato le anche dal vello del montone,
coperto il bronzeo capo dal frigio corno.
Antiche e grandi eran le cose intorno;
antico e grande era il cuore dell'uomo
seduto in pace su la fenduta botte.
Ognun taceva al conspetto dell'uomo
meditabondo. Quasi era a mezzo il giorno:
era il meriggio muto come la notte.
Ognun taceva, ogni anima era prona
dinanzi a lui, col silenzio che adora
e riconosce: alta preghiera in ora
che parve a ognuno scorrere per ignota
profondità. E il forte elce nodoso,
che negreggiava quivi, fu santo come
i dolci olivi dell'orto ove pregò
tre volte un altro uomo di fulve chiome.
E il donatore, seduto su la doga
vile, crollò la testa di leone.
Calmo guardò pei fumi il campo roggio,
col calmo sguardo cerulo che soggioga
il rischio; udì l'anelito dei buoi
affaticati per quelle terre sode;
seguì un aratro che discendea da un poggio,
considerò se fosse dritto il solco
dietro l'attrito vomere. Anche ascoltò
la lodoletta che facea sua melode.
Venne per l'aria il suono d'un rintocco.
Allor fu quivi recato da un pastore
giovine irsuto di pelli, sopra un moggio,
al donator di regni un duro tozzo
di pane, e cacio stantìo, di grave odore.

Aveva ei seco il suo coltello a scrocco,
il suo coltello di marinaio, ancóra
raccomandato alla sua vecchia corda;
l'aperse pronto, con quello s'affettò
il pane e il cacio. Maciullando, guardò
l'aratro antico tratto dai bianchi buoi,
e giudicò del dritto solco; poi,
come il più duro non passava pel gozzo,
chiese da bere sorridendo al pastore.
Allor fu quivi recato in un orciuolo
al donator di regni acqua di pozzo.
Avido ei bevve, accostatosi il rozzo
vaso alla bocca, ma la bocca schifò.
L'acqua putiva, come d'un otro immondo.
Senza sdegnarsi ei versò l'acqua al suolo.
Poi s'asciugò, tranquillo; e disse: «Il pozzo
è infetto. Certo, v'è una carogna al fondo».
S'alzò nel detto; e andò pei campi solo.

DAL SITO:
http://www.atuttascuola.it/scuola/biblioteca/elettra.htm